In seguito alla gloriosa rivoluzione del 1688 si schierarono, all’interno del parlamento inglese, due fazioni di opposti ideali, le quali rispondevano ai nomi di whig e tory. La prima a favore dell’aristocrazia e della tolleranza religiosa, sulla base delle rivendicazioni politiche del tempo, mentre la seconda dagli ideali monarchici e religiosamente intolleranti. Queste rappresentano il primo concreto esempio di partiti politici, perlomeno se considerati in relazione alle suddivisioni politiche attuali, intese generalmente con i termini “destra” e “sinistra”.
Il popolo deve esercitare la sua sovranità, ma è impossibilitato a farlo direttamente a causa del suo elevato numero, pertanto si vede costretto a delegare il proprio potere a qualcuno che lo eserciti al posto suo. In questa osservazione è racchiuso il motivo della nascita della rappresentanza. In vece del popolo nacquero, di conseguenza, i partiti politici, organizzazioni perseguenti determinati obiettivi politici in seno agli organi istituzionali statali. Sulla loro composizione, varietà di forma e d’intenti, capacità di raggiungere gli obiettivi preposti e di attrarre verso di sé porzioni dell’elettorato, si potrebbero dedicare libri interi, data la loro molteplicità e costante evoluzione.
Ciò che tuttavia in questa sede ci preme inquisire, in termini generali, sono i principali pericoli insiti nella loro natura, le disfunzioni e inefficienze che possono, per loro stessa natura, svilupparsi al loro interno.
I pericoli per i partiti
Esaminiamo quali pericoli potrebbero inficiare l’azione dei partiti. Anzitutto, i partiti sono delle organizzazioni sociali (con finalità politiche), e in quanto tali sono formati, guidati e sostenuti, da uomini. Il primo pericolo, dunque, cui vanno incontro, è legato proprio alla loro natura di organizzazione sociale: essendo formate da uomini, ed essendo caratterizzate dall’ottenere delle quantità variabili di potere da gestire, questi due elementi le espongono inevitabilmente al pericolo principale a cui vanno incontro tutte le organizzazioni di tal tipo, e cioè la corruzione.
Vi è, orbene, anche un secondo pericolo, un’inefficienza più sfuggente e che, forse, non tutti potrebbero essere d’accordo nel riconoscere. Questa è essenzialmente legata all’assenza di importanti requisiti di merito per l’eventuale ottenimento di cariche politiche pubbliche. La struttura attuale dei partiti presuppone che non vi sia alcun vincolo di merito, fisso e inamovibile, all’eleggibilità e all’eventuale successiva attribuzione di incarichi politici. È questo, pertanto, un problema che si manifesta in due sedi e momenti successivi l’uno all’altro. In primo luogo, non è richiesto che chiunque, entrato a far parte di un partito politico, per potersi candidare ad ottenere una qualsiasi carica politica, debba mostrare dei particolari requisiti di merito; successivamente, eventualmente eletto a ricoprire una specifica carica, non è nuovamente richiesto alcun requisito di merito specifico alla specifica carica o, visto al contrario, non esistono requisiti specifici che ogni specifica carica richiederebbe.
I requisiti di merito che sarebbe opportuno richiedere
In termini più facilmente comprensibili, non è espressamente richiesto, a coloro che si candidano in prima istanza, e che andranno a occupare importanti cariche pubbliche in seconda istanza, uno specifico titolo di studio, o delle specifiche certificazioni di merito riguardo alle conoscenze che essi, come sarebbe logico ritenere, dovrebbero aver conseguito riguardo al ruolo che si prefiggono d’impersonare; ruolo assimilabile, fuor di dubbio, a una qualsiasi altra professione e, in quanto tale, richiedente un bagaglio di conoscenze pregresse.
Portiamo qualche esempio per rendere più chiara la questione: non è forse legittimo che il malato che si reca dal medico al fine di rimediare ai propri malanni, si aspetti ch’egli sia laureato in medicina, ossia che abbia modo di certificare l’acquisizione delle conoscenze necessarie allo svolgimento del proprio ruolo? E anche laddove non sia richiesta una laurea, anche nei lavori più umili è parimenti richiesta una certificazione inferiore che abbia lo stesso fine di attestare abilità e conoscenza. A che pro costituire un complesso sistema di studio e acquisizione di conoscenze, se poi nella nostra società fossero dei panettieri a erigere un edificio, e degli operai a svolgere il ruolo dei dentisti? Questa è una disciplina che riguarda ogni singolo aspetto di una società. Come un complesso orologio, i cui meccanismi devono sapersi incastrare alla perfezione, ognuno deve fare, nella società in cui vive, la sua parte, in maniera armonica insieme gli altri, e per conseguire ciò deve conoscere i mezzi che utilizza, e non solo. Non vi pare dunque opportuno che a fare politica sia chi dimostri di averne le adeguate conoscenze?
Le carte costituzionali delle maggiori democrazie riconoscono a chiunque il diritto di accedere alla politica, ma in quanto a potersi candidare per una qualunque carica, io ritengo che sia necessario, in base alla carica richiesta, fornire delle certificazioni di merito tali da garantire o precluderne l’accesso. È sacrosanto il diritto di accedere alla vita politica del proprio paese attivamente, di fare politica e perfino di concorrere a un’elezione. Questo è un diritto che deve appartenere a tutti gli appartenenti a uno stato, o a una comunità politica, in quanto tutti donano la loro sovranità in parte uguale a esso e hanno diritto di partecipare alle decisioni. Ergo, a chi volesse offrire la sua dedizione allo stato devono essere garantiti i mezzi e quindi il suo diritto di poterlo fare ma, per il bene dello stato stesso, egli deve poi ottemperare anche agli obblighi inerenti ai mezzi stessi che gli sono stati serviti, cioè deve dimostrare di avere appreso le dovute conoscenze. A chiunque appartenga allo stato deve essere permessa e garantita, pertanto, la piena possibilità d’accesso all’istruzione necessaria per poter entrare in politica e per candidarsi allo specifico ruolo desiderato.
Ovviamente, per quanto riguarda le conoscenze relative a ogni specifica carica, esse varieranno da una all’altra, anche se ritengo utile che tutti costoro posseggano delle solide basi (e quindi conoscenze) in alcuni particolari e a mio avviso imprescindibili settori (quali, ad esempio, la storia, l’economia, e le principali dottrine politiche). A ogni modo, ciò apre a un discorso piuttosto lungo, e che merita di avere dedicato un apposito articolo, per cui rimanderò, per adesso, il suo specifico esame a un momento successivo.
Il pericolo corruzione
Ritornando al primo pericolo, la corruzione, e agli effetti ch’essa può produrre sui partiti politici, il pericolo più grande è inerente al fatto che pochi al suo interno possano utilizzare gli strumenti stessi del partito per perseguire non gli interessi dei propri sostenitori, bensì solo quelli di alcuni individui che ne abbiano preso potere.
Vi è poi un’altra deformazione che possono assumere i partiti politici, e ritengo che possa essere anch’essa inscritta sotto il termine corruzione, laddove esso venga inteso nel senso più basilare, cioè una contaminazione, un’alterazione della loro natura e degli scopi che li rendono (essi soli) legittimi.
Mi riferisco ai cosiddetti “partiti pigliatutto”, formazioni politiche, apparse all’incirca a partire dalla metà del secolo scorso, il cui scopo è unicamente quello di aggregare la maggiore quantità possibile di consensi, tradotti in voti, da qualunque orientamento essi provengano. Di conseguenza, tali partiti perseguono questo obiettivo utilizzando una linea politica estremamente flessibile, aperta a istanze talvolta anche diametralmente opposte. Il loro scopo è uno, e uno solo: la vittoria.
Un partito con una chiara e irremovibile ideologia punterà alla vittoria per modificare la società secondo questa sua ideologia; per converso, i partiti pigliatutto, ma potrei tranquillamente parlare della maggioranza dei partiti odierni, mirano al puro potere e al denaro che dalla distribuzione e dall’utilizzo di tal potere conseguono. La vittoria diviene, nel loro caso, finalizzata all’ottenimento del potere necessario a operare una distribuzione di cariche, favori, appalti, e quant’altro, in cambio di un compenso economico, oppure di un ancor maggiore potere, eventualmente da redistribuire, alimentando nuovamente il sistema. Pertanto, essi non conosceranno ideologia alcuna se non quella utile all’incremento del proprio profitto, per questo si approprieranno a turno delle rivendicazioni capaci di procurargli il maggior consenso possibile, e senza preoccuparsi poi di operare concretamente in nome di esse una volta risultati eventualmente vincitori, poiché il loro obiettivo sarà nuovamente incrementare i consensi, il potere, il profitto. Per questo motivo troppo spesso i partiti attuali paiono essere costantemente in fase di “campagna elettorale”.
La consapevolezza di questi mali, che affliggono le istituzioni partitiche, non è sempre scontata. Talvolta la società ne ha appena il sentore, senza riuscire a identificarli e a definirli appieno. Ciò che interessa la maggioranza degli individui è la percezione che i meccanismi generali non funzionino, che, in fondo, si venga solamente presi in giro. E la reazione istintiva della società si risolve in una profonda sfiducia nelle istituzioni, nella carenza d’interesse per il proprio diritto al voto e a partecipare alla vita politica della nazione; per molti, prodromi irrazionali del pericolo populista.
La sfiducia verso la politica e le istituzioni è quanto di più destrutturante possa verificarsi per il conseguimento del benessere generale, in quanto tali sentimenti spingono il cittadino a diffidare degli altri e delle normali procedure pubbliche, inducendoli a credere che per ottenere il riconoscimento e la tutela dei propri diritti debbano ricercare altri canali, come quelli clientelari, finendo per partecipare anch’essi, inavvertitamente, allo sviluppo di quei mali che legano clientelismo, corruzione e malamministrazione. Ma anche di ciò parleremo più avanti.