Vi sono dei momenti chiave, nella vita di ogni individuo, in cui ci si inizia a porre dei quesiti legati alla propria natura, alla natura del mondo che ci circonda e, guardando al sole e alle stelle, alla natura di ciò che è più grande di noi e che verrà dopo la morte. Fra questi interrogativi nasce anche il bisogno di comprendere cosa ci sai in profondità e alla base di ogni azione compiuta. Qual è, in altre parole, e ammesso che sia uno solo, lo stimolo, l’elemento principale, che muove ogni azione umana, che spinge l’uomo ad agire?
In merito a cosa induca ogni più intima azione umana, cosa sproni le persone ad agire, a prefissarsi degli obiettivi da raggiungere e a perseguirli con dedizione e volontà, e a cosa li spinga a combattere per essi, la risposta credo che sia una sola: la ricerca della felicità. Il desiderio implacabile di sentirsi felici, di provare felicità. Che poi un individuo, angustiato da un’infruttuosa ricerca, finisca per non saper più vivere in mancanza della ricerca stessa, e pertanto finisca per accreditare a quella il proprio obiettivo di felicità, non cambia nulla alla meta finale.
Si potrebbe, forse, arrivare a stabilire che l’unica grande verità che governi l’agire umano sia racchiusa nell’imperante bisogno di ricercare felicità per sé stessi. È questo il risultato di ogni equazione, l’approdo finale di ogni viaggio, la ricompensa richiesta per ogni fatica. Ogni gesto umano, dal più futile o abitudinario al più straordinario e inatteso, se esaminati a fondo, condividono sempre lo stesso obiettivo. Azioni meccaniche e apparentemente istintive condivideranno, al pari di atti profondamente ponderati, lo stesso fine.
Una verifica teorica
Cerchiamo, ora, di dimostrare tutto ciò, di vedere se quanto detto corrisponda a realtà. Esaminiamo quindi le principali azioni umane e verifichiamo se, realmente, esse possano ascriversi a mosse dal desiderio di ottenere felicità per sé stessi.
Partendo dai più basilari movimenti umani, ma tralasciando, solo per ora, la caratteristica umana dell’istinto, possiamo notare come i motivi per cui si agisca e non solo, ma si arrivi anche a scegliere di sottomettersi e subire dei soprusi, oppure di operare con l’intento specifico e consapevole di provare piacere fisico o mentale, siano sempre spinti dallo stesso inesorabile obiettivo. Probabilmente la sopravvivenza stessa, allorquando sia guidata da ragionamento razionale, non è che un mezzo volto a raggiungere lo stesso grande fine.
Proviamo, addirittura, a pensare a coloro che decidono di compiere gesti estremi, come può essere, ad esempio, quello di scegliere di porre fine alla propria vita. In questo caso, come si può pensare che il desiderio di terminare la propria esistenza possa donare una maggiore felicità?
Il desiderio di sopravvivenza può venir meno allorquando, in casi estremi, con la salvaguardia di questa, ci si renda conto dell’impossibilità di poter essere felici. È coerente ritenere che la vita possa essere stata tanto dura, con questi individui, da indurli a convincersi che l’unico modo per poter essere nuovamente felici risieda proprio nel porvi fine. Compiendo un passo più avanti, possiamo considerare l’elementare timore della morte come direttamente collegato alla paura di essere infelici. La nostra inconsapevolezza in merito a cosa ci attenda dopo la morte ci spinge irrazionalmente a ritenere che perire implichi automaticamente l’impossibilità di continuare a inseguire tale fine su questa terra. Per converso, la prospettiva di una vita longeva è legata alla speranza in un futuro felice; più lunga sarà la nostra vita, più possibilità avremo di provare felicità.
D’altronde, se fosse esatto ciò che in molti finiscono per sostenere, e cioè che la sopravvivenza stessa rappresenti l’estremo scopo dell’esistenza umana, allora le nostre vite sarebbero tutte compiute semplicemente affinché questa condizione fosse rispettata, e nessuno di noi conoscerebbe infelicità alcuna se non dopo la morte, appena, cioè, dovesse venir meno il soddisfacimento di tale condizione.
E ancora, potremmo continuare così a lungo, esempio dopo esempio, riuscendo a collegare ogni azione umana allo stesso fine. Perché, dunque, gli uomini stringono alleanze fra loro? Perché talvolta, invece, si combattono l’un l’altro? Per quale motivo cercano di migliorare la loro posizione sociale? A che scopo ricercano il piacere e la soddisfazione personale?
Potremmo agilmente dare, a queste domande, sempre la stessa risposta. Gli uomini si aggregano spinti dalla convinzione che l’unione rappresenti il più solido compromesso per la protezione dei mezzi, fra i quali la sopravvivenza in primo luogo, utili a raggiungere il fine ultimo. Per converso, i conflitti umani hanno spesso scaturigine, da una parte, dalla bramosia di chi imbroglia la maggioranza del gruppo sociale e si appropria di maggior potere, giacché ritiene di poter raggiungere più facilmente, con tali mezzi, il proprio fine ultimo; dall’altra dalle vittime, ossia da coloro che, sentendosi privare di quei mezzi tali da permettergli l’ottenimento della propria felicità (fra cui, per esempio, la libertà), decidono di reagire per riappropriarsene. Piacere e soddisfazione personale è invece molto più chiaro come possano attenere allo stesso fine.
Proviamo a esaminare, qui solo concettualmente e procedendo per supposizioni, un altro caso estremo: per quale ragione le guerre di religione sono le più cruente, nonché quelle in cui una soluzione di continuità si fa sempre più difficile da raggiungere? Da cosa deriva l’estremismo dei gesti spesso compiuti in questi conflitti?
La risposta a questi interrogativi risiede nel fatto che in questo tipo di contese l’uomo è fermamente persuaso del fatto che non stia combattendo per la gloria del proprio paese o per la sua supremazia economica, bensì per ciò che egli considera il suo bene più prezioso: la speranza nella grazia dopo la morte, l’eterna beatitudine nel luogo che ritiene attenda la sua anima, il paradiso, e cioè, in conclusione, l’eterna felicità. Ecco che l’origine della specifica irrisolutezza di tali conflitti è da identificarsi nella seguente dicotomia: la più grande e infinita felicità da un lato, e la dannazione, eterna infelicità, dall’altro.
Questo grande fine può diventare, pertanto, ciò che giustifica, allo sguardo di chi agisce, tanto ogni atto di clemenza quanto ogni efferatezza.
L’evoluzione delle società umane in relazione a tale fine
A seconda della struttura sociale in cui nasce e delle condizioni storiche in cui è catapultato, si espleterà la natura dell’azione dell’uomo, concordemente al suo fine. Sono le condizioni che insistono intorno all’individuo a formarlo e a spingerlo a caratterizzare la sua condotta in una maniera piuttosto che in un’altra, solamente il desiderio che lo guida è, e sarà, sempre lo stesso. È da questa incontrovertibile legge dell’agire umano che scaturisce ogni forma di relazione sociale, ed è in base a ciò che, talvolta anche inconsciamente, si strutturano i rapporti umani, da cui prendono poi forma le istituzioni e lo stato.
Il suo soddisfacimento avrebbe spinto gli uomini ad aggregarsi e a dar vita allo stato. Affinché possa realmente difendere il fine ultimo degli associati, lo stato si appropria poi dell’uso esclusivo della forza fisica legittima, e impone, all’interno dei propri confini, l’imperio della sua legge. È certamente esatto ritenere che gli stati moderni si siano formati a seguito dell’espropriazione del potere di alcuni, a favore dell’accentramento operato da uno solo, e si può altresì affermare che spesso i leader si siano appropriati del potere senza consenso, imponendolo ai membri della propria comunità senza avere alcun interesse a difenderne i bisogni e gli obiettivi. Tuttavia, ciò non esclude e non cancella il moto spontaneo e primigenio che ha caratterizzato la nascita delle prime comunità, cioè degli embrioni di quelli che, nel futuro, sarebbero diventati gli stati nazionali. Ciò che in questa sede è rilevante aver compreso è che gli uomini si uniscono nello stato, donano la loro sovranità a quest’immenso leviatano, al solo fine di difendere il proprio diritto, e con esso i mezzi necessari, a ricercare la propria felicità.
Una lecita obiezione
A ragione, tuttavia, si potrebbe portare un’importante obiezione a questo discorso. Obiezione che ha, al suo centro, una caratteristica tanto affascinante quanto ancora quasi sconosciuta alla nostra stessa cognizione. Ciò di cui sto parlando è l’istinto, quella caratteristica umana che talvolta, eliminando completamente ogni ragione, ci fa agire.
Tale aspetto, dunque, sarebbe in grado di aprire a nuove ipotesi, sia in merito al fine umano, che alla sua stessa natura? Perlomeno, potrebbe farlo tutte quelle volte in cui esso, l’istinto, fosse in grado di eliminare completamente il ragionamento razionale; ma non quelle volte in cui si compiano degli atti abituali definiti come istintivi solo perché diventati, appunto, abituali, ma comunque in prima istanza resi razionalmente.
Ad ogni buon conto, la presenza dell’istinto apre a nuove e affascinanti possibilità, e merita di avere dedicato un discorso a parte, per cui, lo esamineremo più avanti.